Cosa c’è al di là del tentativo di suicidio
Se Flavia avesse letto questo libro durante i suoi anni universitari, sicuramente la sua tesi triennale avrebbe preso una piega diversa e sarebbe stato quel mix perfetto tra psicologia e letteratura. Allo stesso tempo, però, chissá se lo avrebbe apprezzato e capito bene tanto quanto oggi, che é più grande e professionalmente avviata. “Svegliami a mezzanotte” di Fuani Marino, dopotutto, non è solo un libro che parla di suicidio, bensì è molto altro. È quel suicidio non riuscito, quel racconto postumo che è raro da leggere e vivere, fatto di pensieri messi nero su bianco, senza tanti giri di parole che fanno perdere il ritmo nel corso della lettura.

Ci teniamo a sottolineare che non esiste un’età specifica nella quale il suicidio avviene, ma essendo un atto per lo più premeditato che prevede l’intenzionalità da parte del soggetto, è tuttavia raro che possa avvenire quando si è piccoli. Più si va avanti con la crescita, più le idee prendono forma nella mente dell’individuo. Il suicidio, però, non è mai un evento improvviso che accade a un individuo proveniente da una situazione precedente di benessere. C’è chi dice che è l’epilogo di uno stato “perturbato” che ha accompagnato il soggetto per un certo tempo e verso il quale non si è intervenuti.
La persona si sente angosciata e senza aspettative per il futuro. È proprio su questo che si concentra lo studioso Edwin Shneidman, psicologo statunitense specializzato su questo argomento, focalizzandosi sugli interventi volti a salvare la vita degli individui a rischio. Nella sua concettualizzazione, il suicidio è il risultato di un dialogo interiore e per prevenirlo è importante che l’operatore conosca bene il proprio impatto con il tema ponendosi delle domande quali:
- Ritengo che il suicidio sia un segno di debolezza?
- Reagisco con ricoveri e precauzioni di ogni genere di fronte a un’ideazione suicidaria?
È in questo momento che il paziente coglie il giudizio del terapeuta e capisce che se riesce a ridurre il dolore psicologico e a renderlo più accettabile, allontanandosi dall’angoscia e dalle emozioni intollerabili, allora, invece che avvicinarsi alla morte, egli sceglierà di vivere (Tatarelli, Pompili 2009).

“E poi sono caduta, ma non sono morta.”
Questa frase viene riportata dalla scrittrice più di una volta, e arriva dritta al petto e allo stomaco, facendo alzare la testa al lettore, il quale forse ha bisogno di chiudere il libro per un attimo, o forse no. Chissà. Dopotutto ogni individuo è diverso. Com’è diverso quello che Marino ha vissuto e ha riportato in questo libro, i cui capitoli hanno già di loro un titolo che non lascia spazio a nessun tipo di immaginazione. “Ritratto della suicida da giovane” e “Anamnesi familiare”, raccontano la sua infanzia e adolescenza vissuta nel caos, in una casa disordinatissima e sempre piena di giornali e libri dove i ricordi di pranzi di famiglia o cene di Natale tendono a sbiadire o, addirittura, proprio a pervenire nella sua mente. Racconta che i suoi genitori si odiavano e che la parola malattia è entrata dentro casa senza bussare, fin da quando a suo zio Luigi è stata assegnata una diagnosi di schizofrenia.
Alla parola anamnesi, che in psicologia è all’odine del giorno, basti aggiungere che, quindi, un suicidio, è il risultato di un insieme di fattori genetici, biologici, psicologici, sociali, culturali e ambientali, e non può essere spiegato e compreso osservando l’evento scatenante da solo. Oltre a disturbi psicologici piú a rischio quali disturbo d’ansia, disturbi dell’umore e disturbi dell’alimentazione, un altro dei fattori di rischio è legato alla cultura e all’ambito familiare. Se l’integrità è importante come elemento protettivo, allora, al contrario, la sua fragilità è un elemento di rischio, e per fragilità non s’intendono solo casi di divorzio o separazione, ma anche psicopatologie presenti in casa, frequenti liti, atteggiamenti violenti, rigidità e mancanza di affetto.
“Anch’io vorrei evitare di trasformare la malattia in una metafora, ma cosa accade quando ad ammalarsi, a cedere, non è una parte qualsiasi del nostro corpo, con le sue funzioni e la sua anatomia, ma l’organo ben piú complesso che è la nostra mente?”.
In “Esordio” iniziamo a conoscere la vita da adulta della scrittrice, fatta di innamoramenti, studi universitari, psicofarmaci da prendere sempre ad un orario preciso e mai fuori tempo, visite con psichiatri differenti ed infine, la scoperta di essere incinta. In questo periodo Fuani Marino viene a conoscenza di due suicidi a lei vicini: quello di una ragazza che aveva frequentato il suo stesso liceo e quello del padre di un suo amico.
Abbiamo parlato di fattori di rischio, ma anche quelli di protezione hanno la loro importanza. Sono elementi che riducono la probabilità che l’individuo possa mettere in atto un comportamento suicidario e sono considerati essenziali per la costruzione di difese contro gli impulsi suicidari (Wasserman 2001). È possibile distinguere in due categorie tali fattori protettivi:
- Interni: includono la capacità dell’individuo di reagire e far fronte a situazioni stressanti e frustranti;
- Esterni: includono il supporto sociale, la relazione terapeutica positiva e la responsabilità verso gli altri.
Entrambi sono venuti a mancare in Marino, in particolare nel momento di quella che è stata una depressione post partum, prima, sfociata poi in una depressione psicotica alla quale lo “psichiatra numero tre” aveva aggiunto un nuovo psicofarmaco. A questo punto, penso sia utile soffermarsi su una classificazione che è stata proposta in letteratura, da Berman e Jobes (1993), nonché un modello a tre livelli:
Livello A (rischio medio), è descritto come “una situazione in cui bisogna alzare la bandiera rossa”. Ciò avviene quando il clinico riconosce nella vita del paziente uno o più fattori di rischio e diagnostica una condizione comportamentale a rischio.
Livello B (rischio alto), dove l’individuo manifesta in modo esplicito desideri di morte o addirittura la messa in atto del suicidio vero e proprio.
Livello C (rischio imminente), quando si passa all’atto, dopo aver scelto il mezzo e il luogo.
Nel capitolo “Una ferita vivente” siamo ben oltre al livello C. Siamo al reparto di rianimazione, dove leggiamo tutto quello che è successo in quelle mura ospedaliere dopo la caduta della scrittrice, mentre in “Convalescenza” c’è tutto il dopo.

“Eppure, il fatale intento si può anche dissimulare. C’è una foto di me solo pochi giorni prima di buttarmi di sotto: sorrido guardando mio cugino che tiene in mano la bambina in braccio. È un sorriso che sembra autentico. Chi non mi era tanto vicino da conoscere il malessere che vivevo avrebbe potuto indovinare quanto stava per accadere?”
Nel dopo c’è una riflessione della scrittrice sulla sua decisione di raccontare questa storia, la sua storia, senza nascondersi, una riflessione che dovrebbe abbattere stereotipi e pregiudizi e aprire le porte ai tipi di trattamento possibili. Questa inizia con la parola coming out, perché tutti dovrebbero iniziare a fare coming out senza curarsi troppo delle reazioni altrui. Nascondere la testa sotto il cuscino, chiudersi la porta alle spalle a doppia mandata e far finta che tutto questo non sia mai successo, non risolve nessun problema. A far da spalla a Fuani Marino ci sono tanti scrittori, sociologi, artisti e tante persone del mondo culturale che hanno parlato di suicidio, ai quali lei fa ricorso per affrontare questo tema delicato tanto che è possibile quasi avere, alla fine, una rassegna letteraria di libri e articoli che trattano questo tema.
Questa storia è una storia di coraggio che supera i limiti e si spinge oltre in una società che, invece, tende sempre a preservare e preservarsi, come se aprirsi e mettersi a nudo fosse disumano. Ma di umano, invece, qui ci sono le parole di una persona che difende la salute mentale perché “purtroppo non esistono manifestazioni per chi ha disturbi psichici” e se scrivere è il solo mezzo utile per arrivare nelle case delle persone, se è la sola forma di espressione che si ha, allora che si scriva e che se ne parli.