Stiamo per buttarci alle spalle il 2021, e quale modo migliore di prepararsi al nuovo anno se non con una carrellata dì libri già pronti per il nostro gruppo di lettura? Abbiamo già tante idee nel cassetto per voi, quindi intanto spulciate i titoli che ci faranno compagnia fino a Maggio e… stay tuned!
📚 Gennaio: “Eredità” di Vigdis Hjorth edito Fazi editore, che potete acquistare qui;
📚 Febbraio: “Ci chiamavano matti” di Anna Maria Bruzzone edito Il saggiatore, che potete acquistare qui;
📚 Marzo: Qui entrate in gioco voi! Vi daremo la possibilità dì scegliere tra due titoli e deciderete voi quale sarà il libro del mese;
📚Aprile: “Cambiare l’acqua ai fiori” di Valérie Perrin edito Edizioni e/o, che potete acquistare qui;
📚 Maggio: “L’anno del pensiero magico” di Didion edito Il Saggiatore, che potete acquistare qui.
Vi ricordiamo che il nostro GDL si svolge su Telegram ed è aperto a tutti! se ancora non siete nella chat, basta cliccare qui.
Non abbiamo tappe fisse, la lettura è libera e nel corso di questa le sensazioni e le riflessioni (senza spoiler) sono sempre aperte. A fine mese, discutiamo la lettura tutti insieme. Quando possiamo, organizziamo anche interviste con gli autori e ovviamente piccoli spoiler in anteprima!
Se volete partecipare, commentate il post, scriveteci o entrate senza problemi nella chat Telegram. Pronti ad iniziare il 2022 insieme? Noi, come sempre, vi aspettiamo!
“Per me non è possibile scrivere altro che di questo non-tempo. Non mi riesce di vedermi scrivere in futuro. Se prima immaginavo di scrivere di questo e di quello, nel futuro ora tutto tace. Non c’è alcun movimento. C’è solo un silenzio di morte.”
Il dolore di una mamma che perde un figlio non è mai facile da raccontare. C’è la forza di una donna che deve rimanere in piedi per una famiglia intera, specie se ci sono altri figli, come nel caso di Naja Marie Aidt, una delle scrittrici danesi più affermate della sua generazione. C’è la paura di un futuro che, improvvisamente, diventa oscuro e tetro. C’è la fatica nel reagire che ti spezza in due.
Attraverso queste pagine, l’autrice cerca di rimettere insieme i pezzi e i ricordi del figlio si intrecciano con la verità sull’accaduto. Il modo di scrittura, le ripetizioni di frasi e parole, la prosa e la poesia che si alternano, sottolineano ancora di piú il dolore che possiamo leggere in queste righe. Non è la prima volta che parliamo di lutto, ma quando questo può diventare patologico?
Il lutto fisiologico è caratterizzato dall’elaborazione di specifiche fasi che vanno da uno stordimento iniziale, fino a sperimentare rabbia, depressione, tristezza e infine accettazione della perdita. Se queste fasi non vengono ciclicamente superate e si rimane “congelati” in una, ecco che da fisiologico il lutto può diventare patologico. Elaborare il lutto per la morte di un figlio, oltre a non essere un processo semplice, è anche un qualcosa di molto soggettivo.
Il lutto patologico si può esprimere anche nel permanente calo dell’umore, nell’ansia o nell’anedonia, cioè l’incapacità di provare piacere, gioia, felicità. Oppure nell’ossessività sul tema della perdita, dell’autocritica, dei rimorsi, dei rimpianti.
Sono tre le forme possibili del lutto patologico del genitore.
La prima nasconde il tentativo di evitare il dolore: è il caso delle mamme o dei papà che scivolano nel consumo eccessivo di alcol, nell’abuso di psicofarmaci o in altre condotte autolesive.
La seconda è motivata dal tentativo di annullare il dolore: una mamma o un papà dilaniati dal rimorso di essere stati troppo severi con il figlio perduto possono decidere di diventare, troppo presto, di nuovo genitori o sfogare la rabbia sui figli superstiti, divenendo esigenti e ipercritici.
Il terzo tipo di lutto patologico, infine, è quello che si trasforma in un doloroso, eterno capitolo aperto. Si ritrova nei genitori che restano intrappolati nel passato.
Qual è lo stato d’animo piú comune che possono provare i genitori in questa situazione?
Il senso di colpa e la continua domanda “dove ho sbagliato” sono entrambi due elementi da non sottovalutare. Anche in questo caso, quando parliamo di senso di colpa, ci riferiamo a diverse modalità di possibile apparizione.
Il senso di colpa “del sopravvissuto”. La perdita di un figlio infrange un luogo comune sul naturale ordine delle cose: che siano i giovani a dover seppellire i più vecchi. Il senso di colpa del genitore privato del figlio può legarsi al fatto stesso di essere vivo, di avere ancora tempo davanti a sé. Questo stato d’animo è simile a quello provato da chi si salva da stragi, attentati o disastri: è la cosiddetta “sindrome del sopravvissuto”.
Il senso di colpa “morale o religioso”. Un lutto doloroso induce a cercare risposte. L’idea, purtroppo illusoria, è che trovarle porterà pace. Vi sono circostanze in cui il genitore, più o meno razionalmente, si convince che vi siano responsabili diretti. Ma la spiegazione può anche essere morale o addirittura spirituale. A volte, le persone religiose vivono la morte del figlio come una sorta di punizione, la conseguenza dell’aver violato leggi morali o comandamenti, il risultato delle proprie condotte. Un castigo divino.
Il senso di colpa “legato al dolore”. Questo tipo di senso di colpa riguarda la percezione o l’espressione esteriore del dolore. Si pensa che la morte di un figlio sia un evento insopportabile, che cambia la vita per sempre. Purtroppo, spesso è così. Allora, un genitore potrebbe sentirsi in colpa convincendosi di non provare abbastanza dolore o di non dimostrarlo nel modo giusto. Questo sentimento è tipico di chi ha idee rigide su come ci si debba comportare in talune circostanze.
Ci sono differenze tra la morte di un figlio piccolo ed uno piú grande?
Può sembrare banale come domanda, ma le differenze ci sono.
Figlio piccolo: il non saper e voler accettare che il proprio figlio abbia vissuto poco del tempo che invece avrebbe dovuto vivere e la consapevolezza di aver investito le proprie energie per un figlio che è stato portato via troppo presto, può portare i genitori a mettere in atto degli specifici comportamenti per sentirlo ancora accanto tra cui:
il continuare a svegliarsi la notte per sentire se il bambino piange;
il conservare ancora i suoi abiti o lasciare la sua stanza così com’era;
l’incapacità di spostarsi o cambiare casa, per paura di perdere definitivamente il bambino, che si spera ancora possa tornare;
il frequentare spesso il luogo della sepoltura (sembrerebbe che siano maggiormente le madri a metter in atto tale comportamento).
Figlio adulto: nonostante il figlio sia adulto e un soggetto indipendente, la sua perdita può essere molto difficile da accettare, sia per la relazione costruita fino a quel momento che per ciò che si sarebbe potuto costruire in futuro. I genitori possono arrivare ad avere pensieri ricorrenti che riguardano il proprio figlio, arrivando a:
pensare senza tregua ai dettagli del tragico evento;
chiedersi costantemente perché è successo a loro, cosa significhi tutto questo, come sia possibile continuare a vivere;
cercare costantemente il proprio figlio negli altri e proiettare la sua immagine nel futuro, per cercare di “vedere” come sarebbe potuto diventare. Cosa che invece non accade se si è perso un bambino, poiché anche solo pochi mesi dopo la sua morte, si scopre che è difficile immaginarlo.
Questo libro, oltre che un romanzo, è un vero e proprio diario di una mamma che ci mette dentro tutta se stessa, con dubbi e domande che ogni lettore avrà la possibilità di elaborare a modo suo.
Un albo per grandi e piccoli su quando ci si perde
È tempo di vacanze per la piccola Lola, presto partirà per un lungo viaggio con la sua mamma e il suo papà. Però, prima di partire, i suoi genitori le spiegano sei nuove regole molto importanti che deve assolutamente imparare e saper mettere in pratica: le sei magiche regole di chi si perde. Saprà ricordarsele al momento giusto? Cosa farà se dovesse trovarsi da sola per la strada, o in un luogo sconosciuto? Saprà a chi chiedere aiuto?
Questo argomento è certamente molto delicato sia da affrontare con i bambini ma, soprattutto, per i genitori perché una delle più grandi preoccupazioni è quella di perdere il proprio figlio. A volte basta davvero un istante e può succedere che il bambino scompaia dal campo visivo. Quello che segue è una reazione di paura, angoscia e ansia, nell’adulto, ma anche nel piccolo. Per questo è importante sapere affrontare questo discorso e insegnare ai più piccoli cosa è giusto fare se dovesse perdersi senza incutergli paure o timori ma preparandolo in modo calmo e sicuro.
Alcune regole fondamentali da insegnare possono essere: 📍Non muoverti da un posto all’altro ma aspetta di essere ritrovato; 📍Non chiedere aiuto agli estranei ma solo alle persone in divisa; 📍Imparare il numero di telefono dei genitori oppure portare sempre un bigliettino con i loro dati; 📍Non nasconderti per paura ma resta bene in vista.
Una storia è sempre uno tra i metodi più validi ed efficaci per insegnare nuove regole, per questo il libro “Lola non si perde” di Gabriela Rzepecka-Weiss, edito da Nomos Edizioni è lo strumento perfetto! Con coloratissime illustrazioni e ritmo vivace, questo albo racconta molti esempi di “situazioni tipo” ed è un ottimo punto di partenza per parlare di sicurezza con i bambini e insegnarli ad adottare la giusta strategia.
Ma, come devono comportarsi gli adulti? Cosa elaborare l’accaduto dopo aver ritrovato il bambino?
Il momento in cui si perde di vista il bambino è sempre carico di panico, ansia e confusione. Il momento del ritrovamento, però, può essere certamente connotato da emozioni positive ma, a volte, anche negative come rabbia e senso di colpa. Ad ogni modo, è importante reagire bene a questi eventi per evitare che abbiano ripercussioni future anche importanti sui bambini.
Cosa fare dopo aver ritrovato il bambino?
1) Non colpevolizzatevi! Un evento del genere può accadere a tutti, anche ai genitori migliori del mondo. Inoltre, mostrarvi troppo angosciati e apprensivi è controproducente per lo sviluppo dell’autostima e dell’indipendenza del bambino.
2) Cercate di evitare di farvi vedere spaventati o arrabbiati con il bambino quando lo ritrovate. I bambini non si perdono perché lo vogliono. È consigliabile trasmettergli un senso di tranquillità e sicurezza prendendolo in braccio, abbracciandolo, raccontando quello che è successo facendogli capire che eravate preoccupati ma che avete fatto in modo di ritrovarlo.
3) Se il bambino dovesse aver fatto qualcosa di utile e attivo per essere ritrovato (anche solo non essersi mosso o essersi messo a piangere per mandare un messaggio di aiuto) è importante premiarlo e fargli capire che è stato bravo e che non è rimasto completamente in balia degli eventi.
4) Infine, è importante parlare, raccontare ed elaborare l’episodio ogni volta che il bambino lo ricorda ed analizzare insieme perché e come si è perso, per evitare che possa accadere nuovamente.
I maschi, si sa, credono sempre di avere ragione e le femmine sono decisamente delle pettegole. Così la pensano Laura, Alberto e tutti i loro compagni di classe che, con frasi schiette e fin troppo sincere, ci raccontano la quotidianità della loro classe e la continua fatica nel condividere gli stessi spazi, andare d’accordo ed essere amici. Il libro Maschi contro femmine edito da Edizioni Lapis e scritto da Mariapia De Conto fa luce su un argomento molto diffuso e mai fuorimoda: i conflitti e le rivalità tra i compagni di classe.
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Come sappiamo, la scuola non è solo uno spazio di apprendimento, ma è anche un luogo di condivisione e convivenza. Questo, può causare l’insorgere di incomprensioni e disaccordi che possono portare a veri e propri conflitti che devono essere affrontati e superati per rendere quanto più piacevole possibile la quotidianità scolastica. In classe ci possono essere conflitti tra insegnanti e alunni e tra gli stessi alunni ma, in entrambi i casi, questi possono influire in modo diretto sul progresso della classe e sul processo di apprendimento.
Nonostante non esista una formula segreta per risolvere questi problemi, dal momento che il contesto e le persone sono diversi in ogni situazione, ecco alcuni consigli efficaci per gestire i conflitti in classe: 💡Costruire un clima scolastico positivo; 💡Curare il quotidiano attraverso attenzione e ascolto; 💡Studiare il conflitto: non tutto è bullismo; 💡Pensare ad interventi di tipo preventivo e percorsi di sviluppo socioaffettivo; 💡Collaborare con la famiglia e chiedere il supporto a psicologi con esperienza nel settore.
Approfondiamoli insieme
Costruire un clima scolastico positivo: attraverso l’attenzione al gruppo e alle sue dinamiche si può permettere a bambini e ragazzi di incontrare il proprio mondo affettivo in contesti di gruppo, cosa che succede in una classe scolastica. Insegnanti ed educatori si devono porre come valido modello attraverso l’esempio e devono prendere sul serio tutti gli aspetti della vita degli alunni, senza negare quello dei conflitti. Lo stile educativo da adottare deve essere autorevole, incoraggiante e coinvolgente. Sono importantissime tutte le scelte che mirano all’apprendimento cooperativo, che permettono agli studenti di imparare a sostenere senza rivalità ed antagonismo il proprio punto di vista con la disponibilità e capacità di recepire e accettare le prospettive altrui.
Curare il quotidiano attraverso attenzione e ascolto: é fondamentale comunicare apertamente la disapprovazione di tutte le condotte aggressive. Parlarne apertamente comunica ai ragazzi un messaggio importante: la violenza, le prevaricazioni grandi o piccole, la sofferenza, meritano attenzione, non sono situazioni “normali” ed inevitabili che devono essere affrontate con superficialità. L’attenzione non si manifesta denigrando o punendo l’artefice dei comportamenti conflittuali ma mediante l’ascolto e attraverso la valorizzazione delle capacità di ciascuno, attuando controllo e vigilanza solo per la responsabilizzazione degli alunni e renderli più consapevoli.
Illustrazione che si trova all’interno del libro
Studiare il conflitto: non tutto è bullismo. Semplicistiche ed ambigue definizioni di bullismo sono spesso proposte come chiave interpretativa di ogni comportamento minimamente aggressivo o trasgressivo da parte dei ragazzi. È necessario studiare e lavorare per acquisire maggiori capacità di comprensione e collegamento tra cause (stati d’animo, avvenimenti, sofferenze, atteggiamenti, comportamenti, ecc.) ed effetti (sofferenza, possibile sanzione, stigma, ecc.).
Pensare ad interventi di tipo preventivo e percorsi di sviluppo socioaffettivo: per prevenire determinate dinamiche, può essere importante costruire spazi dedicati alla comunicazione e all’espressione delle proprie emozioni come l’attività di circle time. Questa può essere utile per contenere e incanalare determinati sentimenti, permettendo lo sviluppo di capacità di pensiero riflessivo e di autocontrollo, per frenare il dilagare di azioni impulsive. Gli studenti impareranno a riconoscere e ad esprimere i loro sentimenti, partendo dal renderli dicibili e nominabili, anche quelli negativi o difficili da accettare.
Collaborare con la famiglia e chiedere il supporto a psicologi con esperienza nel settore: per poter attuare un intervento che sia vincente, spesso può essere utile usufruire di un intervento di una figura professionale esterna. Lo psicologo, essendo al di fuori delle dinamiche interne della classe che, riguardano anche i docenti, potrà lavorare in maniera più approfondita e professionale cercando di comprendere, affrontare e ristabilire il giusto equilibrio tra tutte le parti coinvolte. Ovviamente, qualsiasi intervento dovrà essere concordato e supportato anche al di fuori delle mura scolastiche attraverso il supporto e il sostegno della famiglia o chi si prende cura del minore.
Le femmine pettegole illustrate nel libro
Cosa avrà fatto la maestra di Laura e Alberto per risolvere la situazione? Forse sarà proprio un’ingiustizia a far superare i luoghi comune e a far riscoprire l’unione della classe. Vi consigliamo la lettura di questo libro per sensibilizzare maggiormente i bambini e i ragazzi sul tema del conflitto e dell’immenso valore della socializzazione.
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🗓 Si terrà il 3 novembre alle ore 19, sarà gratis ed è aperto a tutti, psicologi e non! Quindi, se pensate di non far parte della professione, non temete perché sarà alla portata di professionisti, ma anche di chi si vuole avvicinare alla psicologia per la prima volta o è solo curios*. Il nostro esordio, infatti, sarà su un tema un po’ fuori dal comune: le violazioni del setting!
Ma di cosa stiamo parlando?
🕰 Le violazioni del setting sono tutte quelle situazioni in cui un terapeuta si trova a violare i confini del setting terapeutico, ossia quella linea di demarcazione che rende l’ora di terapia uno spazio in cui, sia paziente che terapeuta, possono sentirsi a loro agio. Quando possiamo parlare di violazione del setting? C’è un modo per prevenirle?
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